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LA PRIMA NON SI SCORDA MAI - la storia della prima missione di Lorenzo

Lo sguardo sulla missione in Burkina Faso con gli occhi di chi parte per la prima volta: la testimonianza di Lorenzo Trentini, assistente logista di Emergenza Sorrisi, è una vera e propria lettera che viene dal cuore, un messaggio ricco di emozioni di chi per la prima volta vede la speranza sbocciare nella vita di bambini, famiglie e di un'intera comunità!


Avevo addosso quella brutta sensazione fatta di leggera angoscia e malinconia che ti prende quando torni da un lungo viaggio in terre curiose e apparentemente inesplorate. Avevo quella sensazione che si ha la domenica, quando venerdì e sabato sono volati via che quasi non sono esistiti e di loro si ha un vago ricordo, veloce e confuso. Sta per cominciare una nuova settimana: il traffico, la confusione, le persone che girano come impazzite, biglie infuocate in cerca di pace. Un anno fa mi sarei rassegnato a questo pensiero, lasciando che divorasse la mia serenità e portasse con sé le ultime ore dell’ultimo giorno della settimana. Il 12 febbraio, a Ouagadougou, in Burkina Faso, mentre mi apprestavo a tornare dalla prima missione umanitaria con Emergenza Sorrisi, la stessa sensazione ha provato a travolgermi come un tir in piena corsa, sbucato dall’angolo della strada a fari spenti. Se fosse successo davvero, però, non sarei qui a raccontarlo.

Qualcosa era cambiato, quella era stata una delle settimane più avvincenti, stimolanti e inaspettate della mia vita e quello, beh quello era il mio lavoro. Ricordo che ero seduto nel letto che Padre Giacomo, uno dei padri spirituali del Convento Saint Antoine di Ouagadougou, aveva allestito per me e per l’equipe di sanitari che con me era partita, quando fissando il vuoto, un sorriso aveva tagliato a metà il mio volto. Sissignore, quello era il mio lavoro, e il mio lavoro lo amavo da morire.

Allora non c’era più la lontana ipotesi di un viaggio tra amici ad ammortizzare la mia insoddisfazione, non c’era più la frenetica ed estenuante attesa di un weekend a colmare la mia noia. Quello era il mio lavoro, in viaggio e in ufficio, e non c’era nulla da riempire. Andava bene così. Dal lunedì alla domenica, ogni giorno aveva la medesima grande importanza. “Ore 9:00 appuntamento a Fiumicino con i romani, con gli altri ci si vede a Istanbul. Ricordate libretto febbre gialla e green pass.” Si parte. A Ouagadougou siamo stati accolti da Padre Joseph, il nostro referente locale in Burkina Faso, che con un sorriso e una stretta di mano quando ha sentito il mio nome è sobbalzato “ah ma sei tu!”. Ci eravamo scritti tanto, e negli ultimi giorni non gli davo pace, ribadendogli a cadenza di qualche ora l’orario di arrivo del nostro volo. Dopo la prima notte a Ouaga, eccoci in viaggio verso Sabou, dove saremo stati ospiti del Convento Saint Maximilien Kolbe che, trovandosi nello stesso complesso dell’ospedale in cui l’equipe sanitaria avrebbe operato, ha facilitato non di poco la logistica lavorativa della settimana trascorsa.

Eccomi in foto, con il piccolo Pière tenuto il braccio dal papà


Terra, polvere, piccole casette in terra cotta, capre, qualche albero, ancora capanne, un negozio con l’insegna disegnata di un uomo ben pettinato che recita “Super Kassim Coiffure!”- “Parrucchiere Super da Kassim!”. Biciclette, frutta, bambini che giocano a pallone in lontananza, bambini che si avvicinano all’auto e chiedono un piccolo aiuto. “Molti di questi bimbi fuggono da nord” ci spiega Joseph. Il Burkina Faso sta attraversando uno dei periodi più bui della propria storia e il nord del Paese nello specifico è colpito da un’insicurezza alimentare senza precedenti, nonché dalle scorribande dei gruppi Jihadisti, che seminano terrore e morte. “Non si capisce cosa vogliano questi, sono bande diverse, è tipo una mafia, e qualcuno a Ouaga ora è seduto su un divano con la sua famiglia e decide questi massacri arricchendosi alle spalle della povera gente”. Dopo un’ora e mezza arriviamo a Sabou. Ha inizio la missione. Ho il compito di assistere i medici nelle visite, aiutarli nell’organizzazione logistica degli interventi chirurgici, di rifornire la sala operatoria di abbondante acqua, nonché di raccogliere materiale che possa essere utile all’ufficio comunicazione: storie, racconti di vita, sorrisi. Mi ero promesso di non farmi aspettative ma è veramente difficile quando stai per partire per un Paese complicato come il Burkina Faso assieme a un gruppo di perfetti sconosciuti di medici e infermieri ad operare bambini che versano in gravi condizioni di salute. Una di queste aspettative mi disegnava come facilmente impressionabile. Una di queste invece mi voleva emotivo. Si sono rivelate entrambe vere ed entrambe false, perché le nostre emozioni non rientrano nei compartimenti stagni del bianco e del nero ma sono una girandola di colori indistinguibili che formano una matassa colorata e complessa. Mi ha colpito l’umiltà di questa gente, la dignità con la quale affronta viaggi lunghissimi per il bene dei propri figli. Percorsi infiniti verso l’ignoto, mano nella mano. Mi ha emozionato l’attesa dei genitori fuori dalla sala operatoria, nel caldo torrido del complesso ospedaliero che, quando incrociavano il mio sguardo, accennavano un sorriso come a dire “Avete finito? Posso entrare?”. Mi ha commosso la forza d’animo di una ragazza che, sentendosi dire che suo figlio non rientrava nei parametri che un’anestesia in sicurezza richiede si è come pietrificata, immobile sulla sedia, piangeva senza versare alcuna lacrima. Mi ha infastidito la perseveranza del padre del piccolo Issouf, che passava ogni dieci minuti a chiedermi quando fosse il turno di suo figlio. Poi mi sono messo nei suoi panni. Mi ha impressionato il sorriso del fratellino di Florianne, senza una gamba dalla nascita, che camminava con una ciabatta nella mano a sostituzione del piede mancante. Non mi hanno impressionato le operazioni chirurgiche. Mi commosso il risultato.


Mi ha emozionato l’impegno instancabile di Joseph a favore della sua comunità. Mi ha commosso il sorriso dei medici partiti con me. “Stasera se sei ancora vivo dimmi che effetto ti ha fatto!” Mi scrive Chicca il primo giorno, mia gigantesca maestra e instancabile responsabile, che fa questo da una vita. Una girandola di colori indistinguibili. Una matassa colorata e complessa. Ecco cosa. Tutto incredibilmente bellissimo, tutto drammaticamente triste. A volte, nelle ore più calde del pomeriggio, mi sedevo cinque minuti su una panchina nel cortile dell’ospedale e mi sentivo inutile. Stiamo cercando di spegnere un incendio con una pistola ad acqua, pensavo. Vero? Forse. Però mi sono anche detto che se tutti assieme ci armassimo di pistola ad acqua forse l’incendio si potrebbe spegnere davvero. Utopico? Forse. Qualunquista, anche. Idealista, sicuramente. So solo che il mio lato più cinico ne è uscito sconfitto e che forse, adesso, un po’, ci credo davvero. Sono le 4:45 di mattina del 13 febbraio: Fabio, Riccardo, Stefano, Claudia, Tania, Marco e Antonio, la strabiliante squadra di medici e infermieri che ho avuto il piacere di portare con me nella mia prima missione umanitaria con Emergenza Sorrisi, prende posto sui sedili del volo diretto a Roma e Milano via Istanbul. Un addetto dell’Aeroporto sale sull’aereo: ad alcuni passeggeri hanno assegnato il medesimo posto a sedere e non si partirà fino a che non se ne verrà a capo. Io dentro di me sorrido, perché so che i miei compagni di viaggio si trovano nel posto giusto da una settimana e, sicuramente, non saranno stati così distratti da sbagliarsi proprio l’ultimo giorno.


“Tante piccole persone che in tanti piccoli luoghi fanno tante piccole cose, possono cambiare il volto del mondo” Proverbio Africano

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