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Immagine del redattoreEmergenza Sorrisi

Ridare il sorriso ai bambini: la missione del dottor Stefano Antonelli

Tra i volontari di Emergenza Sorrisi c’è anche il dottor Stefano Antonelli, medico cardio anestesista rianimatore, originario di Massa, che ha fatto del suo lavoro una vera e propria missione di vita. Figura particolarmente stimata anche nella vita privata per la sua grande disponibilità ad aiutare il prossimo, il dottor Antonelli, ha aderito al progetto di Emergenza Sorriso con grande dedizione, vivendo come un dono ogni esperienza in altri paesi in cui opera la onlus. Di umili origini, Antonelli ha raggiunto grandi obiettivi professionali grazie al suo impegno e al sostegno della sua famiglia: un medico sempre pronto a sorridere alla vita ed anche di far sorridere chi gli sta accanto, contraddistinto da un grande coraggio e da un’inesauribile energia che gli permette anche di dedicarsi a una sua grande passione, la chitarra, che suona in maniera sublime.


Dottore, mi può dire quando ha capito che avrebbe voluto diventare un medico?

Da piccolo spesso osservavo mia madre che puliva polli e conigli per farci da mangiare. Anche se eravamo una famiglia di umili origini, a lei non piaceva cucinare le frattaglie per cui teste ed altri scarti lei spesso rimanevano nel secchio della spazzatura ancora integre. Io iniziai a farle essiccare per scoprire le strutture ossee e articolari. Prendevo anche le teste dei pesci e sezionavo, come un piccolo chirurgo, le strutture: occhi, branchie, pinne e poi andavo a cercare le informazioni relative sull’enciclopedia di casa. Era una cosa che mi affascinava molto e che faceva crescere sempre di più il mio interesse.


Il suo primo obiettivo è stato quello di fare il veterinario?

No, non volevo fare il veterinario, anche se amo gli animali da impazzire, soprattutto quelli che vivono liberi. Mi piacciono proprio per la loro libertà e non perché possono fare compagnia all’uomo, ma questo è mio personale punto di vista. Ma dall’interesse per l’anatomia degli animali è partito quello per il corpo umano: ho cominciato a farmi domande su come siamo fatti e sul perché esistono malattie, di cui avevo avuto esperienza attraverso i miei nonni e con un amichetto che mancò da scuola per tantissimo tempo. Dalla terza elementare ho iniziato questa strada meravigliosa e nonostante le mille difficoltà di una carriera di studio molto lunga e difficile, non mi sono mai pentito della mia scelta.


Lei ha scelto la specializzazione in anestesia e rianimazione.

Sì e per me non è mai stato faticoso il mio mestiere. La professione del medico anestesista e rianimatore è un cocktail di scienza, cultura, umanità, etica e adrenalina allo stato puro, che attraversa, per le sue caratteristiche, tutte le branche della medicina, rendendola un elemento fondamentale nella catena di cura di un paziente, specialmente se “critico”, cioè in costante pericolo di vita. Lavorare sulla lama del rasoio, spesso, può risultare frustrante per gli insuccessi o la perdita della persona in cura, ma questa continua sfida rende, chi fa il mio mestiere, una persona speciale, pur con difetti e paure, ma sembra piena dell’ottimismo necessario a voler tentare anche quando tutto sembra impossibile o senza via di uscita. E quando la si trova, la felicità per quella vita salvata ripaga dei mille insuccessi che ti hanno schiacciato e su cui spesso non dormi la notte, pensando ad altre persone che non sei riuscito a salvare, alle domande dei parenti affranti, al dolore che hai raccolto, ma che non hai potuto lenire.


Quando è stata la sua prima missione umanitaria, che cosa si ricorda di quella esperienza?

Nel 2009, in Chad, nel cosiddetto “ombelico del mondo”. In quella zona sono state ritrovate le testimonianze preistoriche dei più antichi uomini apparsi sulla terra. Ero a ‘Ndjamena, capitale di questo paese che è tra i più poveri al mondo, all’ospedale Le bon samaritaine. Un mese di emozioni devastanti: l’Africa toccata con mano per la prima volta, dopo il sogno di una vita. Lavorare notte e giorno, spesso senza luce, senza ossigeno, senza farmaci, senza disinfettanti, con tante mosche sulle ferite chirurgiche. Intestini trafitti da pallottole, braccia lacerate da machete, gambe fratturate da morsi di coccodrilli o da ippopotami. Tanti bimbi. Tantissimi malati e sofferenti ma con un sorriso contagioso. Lottare contro gli stregoni dei villaggi, che con i loro rimedi “tradizionali” allontanano le famiglie da reali possibilità di cura in ospedali supportati da medici occidentali. Un aiuto che è totalmente volontario perché i medici partono usando le loro ferie, lasciano le loro stesse famiglie e si spendono senza se e senza ma per il bene di quella povera gente. Il ricordo più atroce è stata l’amputazione di una gamba a una piccola bimba di 20 mesi, colpita da un’infezione, sapendo che c’era il rischio che venisse abbandonata dai genitori perché “storpia”. A distanza di anni, abbiamo avuto la splendida notizia che la bambina è cresciuta e sta bene, grazie a delle protesi che la seguono nella crescita. Sono certo che diventerà una fortissima donna africana.


Stiamo vivendo un periodo storico particolare, la guerra è vicina. Lei, crede di andare al confine per portare il tuo sostegno?

La guerra è sempre vicina anche quando vengono ammazzati centinaia di bambini nello Yemen, nella Repubblica Centrafricana, in Rwanda. Stavolta è più vicina perché ci sono interessi vicini a noi: la guerra delle risorse energetiche, le bollette del gas alle stelle. In realtà la guerra è sempre orrore, qualunque sia la sua motivazione. Una delle onlus più attive nel settore del soccorso ai profughi, Rainbow for Africa, mi ha già contattato, insieme a molti altri medici ed infermieri italiani, per una task force di volontari specializzati nel settore. Siamo ‘on call’. E mentre i russi stanno trasferendo artiglieria pesante, noi stiamo inviando container con ospedali e sale operatorie e mezzi di primo soccorso e di primo sostentamento, cibo, coperte, latte, tende per famiglie con donne anziani ma soprattutto bambini, che più di tutti sentono lo strazio di un qualcosa che nemmeno possono comprendere. L’UNHFR, l’ente dell’ONU per la protezione dei rifugiati, sta stimando la possibilità che circa cinque milioni di ucraini possano lasciare la nazione. I paesi limitrofi stanno dandosi da fare, Moldavia in primis. I soccorsi umanitari sono alle porte. Se dovrò andare, lo farò con la speranza che tutto finisca il prima possibile. Siamo pronti e anche terrorizzati ad incontrare ancora una volta così tanta atrocità. Nel 2015 sempre con Rainbow for Africa, ho vissuto il dramma della crisi siriana con la povera gente che attraversava la Turchia per approdare a Lesbo. Mi chiamarono perché molti bimbi annegavano prima di raggiungere la riva, spesso travolti dalle persone adulte e non c’erano abbastanza anestesisti rianimatori per soccorrerli: un’esperienza da brividi.


Cosa pensa di questo periodo storico che stiamo vivendo?

Ci sono soldati che via “social” ormai ti mostrano combattimenti o bombardamenti in diretta. Con lo stesso mezzo, vediamo figli affidati a sconosciuti nella disperata speranza di farli arrivare in terre di pace. Lo stesso sindaco di Kiev manda messaggi via social per comunicare nel migliore e più breve tempo possibile al più grande numero di persone in tempo reale. La comunicazione digitale è alle stelle, a livelli mai visti prima. Siamo passati dalle guerre “chirurgiche” alle guerre “via social”. La guerra è orrore sempre e sarebbe bello che i capi della terra “chattassero” meglio tra loro, usando tutto ciò che una sana diplomazia può mettere a disposizione. La guerra fa male sempre e solo al popolo, non a loro. Non entro nel merito politico perché purtroppo conosco poco la cultura dell’est sovietico. Siamo stati sommersi dal fascino del capitalismo e dal terrore dell’islamismo. Siamo troppo piccoli e confusi per capire esattamente come stanno le cose. Ma sappiamo per certo che la guerra è da abolire. Per fare questo dovremmo, tuttavia, prima mettere in un’arena i signori della guerra, compresi quelli che la scatenano, producendo e vendendo loro armi. La guerra è la più bieca espressione dell’ipocrisia del potere. Solo il popolo, soldati compresi, può fermarla. È ora di dire basta alla guerra. Tutti insieme. E forse Putin, Biden o il talebano della porta accanto, appariranno solo dei flaccidi fantocci capaci di niente. Se non avessero soldati e armi al massimo potrebbero tirarsi due elastici tra di loro sulle orecchie. Forse è una banalità ma val la pena di rifletterci sopra.


Cosa ha apportato Il suo lavoro nella sua vita?

Un lavoro come il mio, si fa fatica a chiamarlo ‘lavoro’. La bellezza e le opportunità che offre sono incommensurabili. Si affronta tutto ciò che l’animo umano spesso fatica a codificare: la vita, la morte, la nascita, la violenza, la malattia. Quando “tocchi” una persona malata, questa ti fa un regalo incredibile. Ti dona la sua intimità, la sua fiducia, si fida di te, si affida a te. È un onore senza misura che va meritato, sbagliando il meno possibile. Non sei un angelo che arriva a dare una mano, come a volte si sente dire. Tu sali dall’inferno che vedi tutti i giorni, ma quando sfiori e ti avvicini ad una persona che soffre, in realtà, è lei che come un angelo ti sta salvando la vita, ti fa compiere il miracolo di essere una persona utile agli altri. E questo avviene senza volere nulla in cambio, se non rivedere una vita che riparte e la gioia negli occhi di una persona che non soffre più. È una tempesta di gioia che, quando accade, si espande con la forza di uno tsunami. Sono queste emozioni, mescolate alle molte fasi di dolore che si vivono spesso insieme al malato e ai suoi familiari, che danno tutto il senso della tua esistenza. Per questo ringrazio tutti i giorni di averci voluto credere fino in fondo. Non puoi non amare una cosa del genere. Per questo è riduttivo chiamarlo lavoro. Le persone come me non lavorano: vivono quotidianamente, semplicemente, di questo.

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